PRIMO MAGGIO


Oggi festeggiamo i lavoratori. Ne approfittiamo per stare assieme. Per fare anche qualche riflessione assieme, sul lavoro, sull'economia, su come sta cambiando il mondo del lavoro, su come questa nuova economia sta cambiando il lavoro.
Dopo anni passati a preoccuparci della globalizzazione e dei suoi effetti devastanti sul lavoro e l'occupazione, ci troviamo di fronte il nuovo idolo: la new economy.
Sembra che non vi sia altro argomento nelle pagine - non solo economiche - dei giornali.
Come la globalizzazione ha i suoi profeti, anche la new economy ha i suoi guru che ci promettono un'era di crescita economica e di prosperità senza fine. Dopo un prolungato periodo di crisi economica, la promessa di una lunga crescita economica sembra una primavera. Una crescita economica che promette di liberarci dai molti problemi: dall'incubo della disoccupazione o dall'impossibilità di finanziare i sistemi previdenziali.
Per alcuni profeti della new economy saremmo entrati in un periodo di prosperità duraturo grazie alle nuove tecnologie, a Internet, all'economia in rete.
In realtà non è così chiaro perché le nuove tecnologie dovrebbero aumentare la produttività e nel contempo garantire il pieno impiego.
L'unica cosa certa: un cambiamento profondo del mondo del lavoro. Disoccupazione ridotta sì, ma anche crescente diseguaglianza salariale. Lo squilibrio nella distribuzione della ricchezza lascia a bocca aperta.
Meno disoccupazione però a livello statistico, ma più emarginazione per quanti non reggono la competitività.
Lo stesso A. Greenspan, presidente della Federal Reserve, ha detto che le ineguaglianze di reddito potrebbero diventare una grave minaccia per la nostra società.
Il più recente studio dell'Ufficio federale di statistica sulla struttura dei salari in Svizzera dimostra che i salari anche da noi aumentano nei settori dove sono già i più alti, diminuiscono in quelli tradizionalmente più bassi.
Ci stiamo avviando verso un mercato del lavoro dove ci sono pochi vincitori e molti perdenti; i perdenti restano indietro, i pochi vincitori prendono quasi tutto.
Le grandi ristrutturazioni in atto nelle aziende del resto possono essere molto arbitrarie per il singolo lavoratore. Nessuno, neanche i quadri superiori, è sicuro del proprio posto. Anche per questo chi arriva in alto arraffa più che può. E non intende nessuna ragione. L'equità e la solidarietà si svuotano di significato. Non perchè tutti si imbarbariscono, ma perché tanti pensano che in fondo è come una lotteria. Allora tanto vale arricchirsi quando e come si può.
Tutto questo ha un costo, per molti, per chi perde ma forse anche per chi vince. Questa nuova condizione esistenziale è descritta molto bene nel libro di Richard Sennet, "L'uomo flessibile". La flessibilità è la nuova parola d'ordine dell'economia, pardon, della nuova economia.
Oggi è la festa del lavoro. E oggi ai lavoratori viene chiesto di essere flessibili, versatili, pronti ai cambiamenti, di essere pronti a rischiare per l'azienda, ma nello stesso tempo di non affezionarsi all'azienda. Perché questa può essere ristrutturata o venduta in ogni momento. Il concetto di carriera lineare non esiste più.
Questi continui cambiamenti nelle aziende hanno ormai dei nomi: ogni giorno sentiamo di aziende che fanno re-engeenering e downsizing. Che vuol poi dire fare meno cose con meno gente. Questi pazzeschi bollettini di guerra, che sarebbero ridicoli se non fosse che travolgono il destino delle persone e dei loro familiari, lasciano di stucco.
I sindacati protestano o protestano i governi locali. Ma la maggior parte delle volte non c'è nulla da fare. Il che è paradossale perché appare ormai sempre più evidente che molte volte le aziende ristrutturano senza averne dei veri benefici. Delle grandi ristrutturazioni sono beneficiati i consulenti e gli azionisti.
Altro che la morte delle ideologie. Stiamo vivendo un momento molto ideologico, di pensiero unico, di ideologia senza contrasto, con tutti gli apostoli di questa nuova economia. Il mercato inteso come gioco al lotto, dove chi può arraffa i maggiori benefici al più presto. La cultura della competizione viene predicata da tutti i governi. Neppure i governi di sinistra possono farne a meno. Pena ritrovarsi il proprio paese fuori gioco, impoverito e ultimo nella corsa.
Nessun governo vorrebbe la povertà per i suoi cittadini. Così come nessun genitore vorrebbe il fallimento per i propri figli. Così corriamo tutti. Corriamo ad arricchirci, come se fosse un dovere morale.
Nel suo bellissimo discorso per il primo maggio Peter Bichsel scrive: anche noi abbiamo ridotto la vita all'idea che la ricchezza sia tutto. Se tutti noi possiamo diventare ricchi, non abbiamo più nessun bisogno di solidarietà. La concorrenza è tutto, la solidarietà è ridicola.(P. Bichsel, Zum ersten Mai oder ein anderen Datum).
Un'affermazione provocante, che Bichsel non lascia senza risposta. A leggerlo tutto il suo discorso è ottimista. Come vuole esserlo il mio oggi.
Non vi è nessuna società umana che possa vivere e progredire senza grandi dosi di solidarietà. Lo sperimentiamo tutti i giorni, in tutte le fasi della nostra esistenza. In certi momenti meno, e ci sentiamo imbattibili, in altri momenti abbiamo bisogno della solidarietà degli altri, eccome.
Quando siamo malati abbiamo bisogno di persone sane che paghino i premi di assicurazione malattia. Quando diventiamo anziani abbiamo bisogno di lavoratori più giovani che paghino i contributi AVS.
La solidarietà è l'essenza delle grandi assicurazioni mutuali. Ma è anche l'essenza della nostra vita privata, del nostro sviluppo come esseri umani. Chi si illude di trasformare il mondo in un luogo dove le strutture sociali sono ridotte al minimo si stupirebbe di come proprio la crescita economica, la grande dea, sarebbe inibita, bloccata.
Per dirla in altre parole non vi è ricchezza senza le strutture dello stato democratico e sociale. Un buon livello di socialità è necessario alla crescita economica. Non vi è nulla di più falso che credere che la socialità sia nemica della crescita dell'economia.
Lo Stato sociale non deve naturalmente trasformarsi in uno stato assistenziale che soffoca ogni iniziativa dei cittadini. La burocrazia soffocante è tipica degli stati autoritari. Ma nel nostro paese non abbiamo mai avuto questo problema.
Quanto un efficiente stato sociale sia essenziale per l'economia lo dimostra la Russia. Dopo il collasso dell'Unione Sovietica non esiste più un vero programma di salute pubblica. Un autorevole e recente studio (Nicholas Eberstadt, "Russie: l'inévitable déclin?") dimostra come il deteriorarsi dello stato di salute fisica della popolazione russa, sta ipotecando il destino economico della nazione, inesorabilmente. Ai nostri giorni la ricchezza delle nazioni e la loro influenza politica dipendono dalle loro risorse umane.
Alla sinistra viene rimproverato spesso di non occuparsi di economia ma solo di socialità. Possiamo rispondere che è proprio occupandosi di socialità e sanità che si garantisce la crescita economica, che si garantiscono le risorse umane necessarie alla ricchezza della nazione.
Occuparsi del benessere della popolazione vuol dire fare scelte non solo a corto termine, ma a lungo termine. Vuol dire privilegiare le scelte per il futuro, per le nuove generazioni, a scapito del culto del profitto immediato. Vuol dire impegnarsi per uno sviluppo sostenibile, affinché le prossime generazioni non siano deprivate del loro ambiente naturale.
Che il mondo del lavoro stia cambiando dobbiamo prenderne atto. Non possiamo contrastare la storia. Ma possiamo credere nel futuro. Possiamo contrastare questa logica del guadagno immediato che in fondo disprezza del futuro.

Patrizia Pesenti
Consigliere di Stato

Rovio, 1.maggio 2000