PRIMO MAGGIO 2001

Rovio, 1. maggio 2001


 

Care compagne,

cari compagni,

 

la festa del 1. Maggio è un momento per stare assieme, e io sono stata molto contenta di ricevere, per il terzo anno consecutivo, il vostro invito per passare la serata qui a Rovio.

È sempre un grande piacere.

La giornata del primo maggio è anche un momento per per manifestare. Tradizionalmente il primo maggio era il momento di protestare pubblicamente, soprattutto sulle condizioni di lavoro.

A partire dal 1890, quando c’è stata la prima grande manifestazione internazionale dei lavoratori, il primo maggio è sempre stato il momento per dire pubblicamente le rivendicazioni del movimento operaio. E all’inizio il movimento operaio si batteva soprattutto per le otto ore di lavoro giornaliere.

Il primo maggio di quest’anno ha come tema:

Pubblico e privato: contro la flessibilità.

Non sono più le otto ore, non è più la disoccupazione al centro dell’attenzione, ma le condizioni di lavoro. Ed è giusto, perché laddove la disoccupazione è scesa, anche da noi, sono in aumento le forme di lavoro precario.

Il mondo del lavoro è cambiato molto negli ultimi vent’anni. Quella che viene definita la rivoluzione tecnologica, accompagnata dalla globalizzazione dei mercati, ha modificato profondamente le condizioni di lavoro. La disoccupazione è in calo, ma molti lavorano in forme precarie, a tempo parziale o su incarico, a tempo determinato, lavorano ma senza la sicurezza del posto di lavoro. Lavorano su chiamata, senza essere sicuri di lavorare sempre abbastanza. Oppure lavorano prendendo ogni incarico, con la paura di non averne abbastanza, di rimanere senza, di dover far fronte a tempi peggiori, per cui non si fermano mai.

In questo modo alcuni diventano ricchissimi (di mandati milionari abbiamo parlato anche nel nostro cantone) altri restano più poveri che mai. Coloro che pur lavorando molto non raggiungono un salario decente sono in aumento.

Ci sono molte cose da dire attorno a questi cambiamenti: 

La prima è che occorre cambiare il modo di vedere le cose.

Che lo si voglia o meno a sinistra il nostro linguaggio e i nostri ragionamenti devono essere più attuali. Alcuni di noi vanno avanti a dire le stesse cose, ad analizzare nello stesso modo il mondo del lavoro, la politica e le questioni sociali sempre nello stesso modo.

Io credo che più che spaccature politiche a sinistra ci sono molti pigri: semplicemente non vogliono vedere che il mondo del lavoro è cambiato, che occorrono altre analisi, altri strumenti per capire cosa sta succedendo alle persone. Per capire veramente di cosa soffrono, in quali difficoltà si dibattono. Certo cambiare registro, vedere le cose in un altro modo, approfondendo i cambiamenti per non subirli, richiede uno sforzo. Ma il movimento operaio non può essere pigro e adagiarsi sulla tradizione.

La seconda è che questo nuovo modo di lavorare, di produrre sta aumentando le differenze tra le persone, sta aumentando sempre di più la forbice tra i salari. E questo è uno dei problemi più urgenti e drammatici da affrontare.

Queste differenze così immense, così sfacciate tra i guadagni mettono seriamente in pericolo la coesione sociale.

Queste differenze così importanti mettono in pericolo però anche la crescita economica, perché vi saranno sempre più persone non in grado di garantire condizioni decenti ai propri figli.

Differenze troppo grandi nei salari erodono le risorse umane di un paese semplicemente perché molte intelligenze, troppe, vanno sprecate.

La terza cosa da dire è che i cambiamenti non sono avvenuti solo per volere dell’economia. Molti lavoratori hanno ricercato e favorito la flessibilità che noi oggi vogliamo combattere: penso alle donne, entrate in massa nel mercato del lavoro come non era mai successo prima. Nel tentativo faticoso di coniugare lavoro e cura della famiglia, le donne hanno facilitato l’introduzione di lavori part-time, flessibili, da poter svolgere a casa. Con risultati positivi e negativi.

Ma anche altri lavoratori hanno cercato nuove strade, verso l’autonomia, verso l’imprenditorialità, inventando da nulla o reinterpretando professioni nuove o vecchie. Facilitati, non obbligati, dalle nuove tecnologie.

Naturalmente questo nuovo modo di lavorare non deve essere visto solo nei suoi lati positivi, come vorrebbero i sacerdoti della new economy. La precarietà, ma ne parlerò ancora dopo in relazione alla salute delle persone, può essere fonte di disagi enormi.

Soprattutto se accompagnata dalla paura.

Paura di non essere all’altezza del proprio compito, paura di perdere il lavoro, paura di non ricevere un altro incarico.

Per altri invece la flessibilità, accompagnata dalla voglia di maggior autonomia, ha aperto nuove opportunità di lavoro, magari di un lavoro che rispetta meglio i tempi e la vita individuale.

Oggi dovremmo dichiararci contro la flessibilità. Ma non è così semplice. Molti vogliono lavori più flessibili, perché permettono di emanciparsi dall’antico giogo del lavoro dipendente.

Quanti sono i giovani che conoscete che considerano come un traguardo della loro esistenza il lavoro in una grossa fabbrica? Quanti giovani sono pronti a scendere in piazza per un lavoro che duri tutta la vita ? Le nuove generazioni hanno voglia di altro, e sono pronte a rischiare nuove strade in un mondo che è cambiato.

Cosa dobbiamo dire loro ? Che ci battiamo contro il cambiamento?

I giovani sono pronti ad una maggior flessibilità, ne hanno meno paura delle generazioni precedenti, anche perché la vedono come un destino condiviso. Quello che dobbiamo offrire loro non è una lotta contro la flessibilità. Quello di cui hanno bisogno e diritto è una maggior sicurezza in un mondo del lavoro che è già cambiato.

La flessibilità diventa un disagio se le sicurezze e le garanzie sociali che erano, e sono, ancorate al lavoro stabile e a tempo pieno, vanno perdute con un lavoro part-time o instabile.

Dobbiamo assumere positivamente il cambiamento in atto, dobbiamo assumere positivamente la flessibilità e creare nuove forme di socialità che corrispondano al nuovo modo di lavorare. Non è la flessibilità a spaventare chi lavora, ma la paura di rimanere senza lavoro e quindi senza coperture assicurative, senza soldi quando ci si ammala, senza una previdenza per la vecchiaia.

Queste sono le paure. Non vengono solo dalla accresciuta flessibilità, ma anche da un sistema sociale rigido, costruito sul pieno impiego, che va in frantumi se chi lavora non ha continuità.

Questi sono i nuovi rischi a cui lo stato sociale deve poter rispondere.

Tra l’altro stiamo approfondendo queste

nuove forme di sicurezza sociale, in grado di offrire adeguata sicurezza ai lavoratori flessibili, per scelta o per necessità.

La risposta che lo stato sociale deve dare in modo urgente, è una risposta alle paure, ai rischi a cui la nostra epoca ci espone. Rischi che angosciano, che fanno ammalare.

Da un recente studio effettuato in Svizzera, più del 10% di chi lavora vive quotidianamente nell’angoscia di perdere il posto di lavoro. Sono 400'000 lavoratori le cui condizioni di salute sono state messe fuoco in questo studio. Il risultato è stato sorprendente: la percentuale di loro che soffriva di insonnia era del 60% in più dei lavoratori che non avevano costantemente paura di perdere il posto di lavoro. Dolori alla schiena: il 110% in più; consumo di tranquillanti e sonniferi il 100% in più. Nelle condizioni di salute si possono leggere esattamente le condizioni di lavoro.

La flessibilità, il nuovo modo di produrre, così come l’autonomia non sono di per sé negativi. Ma è una questione di misura. C’è un livello oltre al quale le regole della nuova economia non possono essere applicate. Per dirla in altre parole, le nuove regole della produzione economica, se adottate in modo dogmatico, portano ad un peggioramento delle condizioni di salute.

La popolazione, anche da noi, è convinta che le condizioni di salute dipendono dal consumo di prestazioni sanitarie, di cure mediche.

Da qualche tempo si moltiplicano gli studi che dimostrano che più medicina, più cure, più tecnologia medica non vuol dire più salute.

La salute delle persone dipende invece dalle condizioni di vita, dalle condizioni sociali e economiche delle persone.

Anche se in Ticino e in Svizzera crediamo che l’accesso alle cure generalizzato alle cure e ai servizi abbia creato una sorta di giustizia davanti alla malattia, non è così: chi vive in condizioni sfavorevoli dal profilo economico e sociale ha una minore aspettativa di vita.

Investiamo più di 40 miliardi nel sistema sanitario svizzero, ma non modificano le vere diseguaglianze nelle condizioni di salute.

Anche i costosissimi programmi di prevenzione, che ci suggeriscono di fare movimento, non fumare, mangiare meglio sembrano avere l’effetto di migliorare ancora di più le aspettative di vita di chi è socialmente e culturalmente in grado di capire questi messaggi e vive in condizioni tali da poterli mettere in pratica, ma lascia inalterate le condizioni di salute delle persone meno provviste di mezzi. Anzi queste persone a cui suggeriamo di fare movimento all’aria aperta, se vivono vicino ad una strada trafficata e inquinata, avranno alla fine solo dei sensi di colpa in più.

Non è l’offerta di medicina che va incrementata, sono le condizioni di vita, di lavoro delle persone che vanno migliorate.

I medici dovrebbero prescrivere un lavoro più sicuro, un’abitazione meno inquinata e meno rumorosa, non antibiotici, tranquillanti e antidepressivi. La sanità costerebbe molto meno e le condizioni di salute della popolazione sarebbero migliori.

Tra l’altro impressiona, se si guarda alla storia di questa festa del primo maggio, come l’azione di due medici, sia stata determinante per migliorare le condizioni di salute dei lavoratori svizzeri.

Il medico glaronese Fridolin Schuler ha difeso con argomenti scientifici e medici la riduzione delle ore di lavoro giornaliere all’epoca della prima Legge sul lavoro (1877).

Lo slogan 8 ore di lavoro, 8 ore di svago e 8 ore di sonno tipico dei primi maggio dell’ottocento non è del resto stato inventato né da un sindacalista, né da un politico, ma da un medico, il dottor Hufeland (che era tra l’altro il medico di Goethe).

I progressi segnati in un secolo di evoluzione, sia a livello di produzione sia a livello medico, potrebbero farci credere di aver fatto grossi passi in avanti.

Ma il benessere sanitario delle lavoratrici e dei lavoratori è sempre ancora in pericolo a causa dei metodi di produzione con gesti ripetitivi, emissioni nocive di nuovi materiali o sostanze, rumori.

Ma anche orari irregolari, turni notturni, precarietà diffusa, competitività che logora, paura di perdere il posto di lavoro.

La precarietà, più che la flessibilità del lavoro sono causa di sofferenza, stanno peggiorando le condizioni di salute dei lavoratori, ma anche dei loro figli. Le crescenti disuguaglianze sociali causano disagio, e trascinano con sé comportamenti dannosi alla salute: il consumo di alcol, il fumo, la mancanza di movimento e l’alimentazione inadeguata sono più frequenti laddove le persone vivono nella paura, nel disagio. I bambini e i giovani che crescono in un contesto deprivato hanno peggiori condizioni di salute e una più bassa aspettativa di vita. Queste differenze non solo tragiche a livello individuale, ma sono pessime anche per rapporto alla crescita economica. L’economia attuale si basa quasi esclusivamente sulle risorse umane, soprattutto nel nostro paese. Una popolazione meno sana, una minore coesione sociale mettono in pericolo la crescita economica e il benessere di tutti.

Preoccuparsi delle condizioni di salute della popolazione, soprattutto della salute dei giovani che crescono in un contesto sociale sfavorito, è un dovere e un obiettivo per uno stato sociale e moderno.

Questa è la strada che vogliamo percorrere.

Senza chiuderci ai cambiamenti, senza chiudere gli occhi di fronte al mondo del lavoro che cambia.

Vogliamo una politica capace di capire cosa sta veramente succedendo e in che modo possiamo prendere sulle nostre spalle un po’ delle paure, dei rischi che le lavoratrici e i lavoratori devono affrontare.

Vogliamo una politica che non nega i cambiamenti, ma che propone riforme che possano dare a tutti i mezzi per attraversare questi cambiamenti senza rischiare, senza affanno.

Vogliamo una politica che, anche nelle turbolenze, sappia seguire la bussola della giustizia, delle pari opportunità e della solidarietà.

 

Patrizia Pesenti

Consigliere di Stato