Istituto oncologico della svizzera italiana

Decimo anniversario di Hospice Lugano 

23 ottobre 2001


 

Gentili Signore, Egregi Signori,

 

Quando mi è stato chiesto di partecipare a questo incontro di medicina palliativa ho aderito subito con entusiasmo.

 

Non solo perché la giornata coincide con il decimo anniversario di Hospice Lugano.

 

Ma perché mi rendo conto che la nascita delle cure palliative ha rappresentato all’interno della medicina un segno di rottura e di rinnovamento che con tempi e modalità differenti, sta modificando nei paesi occidentali l’approccio alla sofferenza e alla morte.

Ma non è facile parlare di questi temi.

 

Cosa può dire della morte e del morire ?

 

Ancora studente, ho letto e riletto un libro che mi ha molto marcato: Della morte e del morire (Vom Sterben und Tod) di Peter Noll, mio professore di diritto penale all'Università di Zurigo. È il suo diario, nell'anno intercorso tra la diagnosi di un tumore incurabile e la sua morte. Non so se si parlava già di medicina palliativa, ma le uniche cure a cui Peter Noll si sottopone, potrebbero essere definite palliative. La sua scelta di fondo era stata quella di non consegnarsi agli ospedali, alle cure mediche.

 

Nella nostra società si muore male. Per tanti motivi.

 

Abbiamo la tendenza a rimuovere la morte come momento inevitabile e necessario della vita umana.

Ma si muore male anche a causa della medicina stessa. Non per colpa delle sue insufficienze, bensì paradossalmente a causa della sua efficacia. 

 

Non conoscevo bene questo tema, e ringrazio il dr. Michele Tomamichel che mi ha spiegato molti aspetti della medicina palliativa.

Le cure palliative si sono sviluppate come reazione ad un processo di emarginazione della morte dalla nostra quotidianità.

Un’emarginazione che è stata accompagnata da una delega totale della gestione della morte e del morire alla medicina e quasi esclusivamente a quella ospedaliera.

 

Max Frisch, in un discorso alla festa di Diploma dei giovani medici zurighesi tenuto nel 1984, già seriamente ammalato, pochi mesi prima della sua morte, diceva: "La morte in quanto fatto biologico è qualcosa di triviale, che conferma le leggi a cui tutta la natura è sottoposta. Quindi una conferma della scienza, che tanto più grandiosamente si sviluppa, tanto più conferme riscuote, senza però essere in grado di fornire alcuna rivelazione. Sono i miti che possono liberare la morte dall’oscenità; essi non spiegano nulla ma rendono l’inesplicabile familiare e vivibile. La morte come fatto metafisco è altro: la morte non è semplicemente la fine di un penoso decadimento; la morte è fin dall’inizio e non ha fine".

 

La medicina è lanciata nella ricerca di tecniche diagnostiche sempre più raffinate. Le possibilità diagnostiche aumentano velocemente, più velocemente delle possibilità terapeutiche.

 

Sempre di più sapremo di cosa moriremo, lo sapremo in anticipo, senza poter fare nulla. Occorre stare molto attenti a questi sviluppi della scienza medica.

 

In un recente editoriale il dr. Richard Smith, direttore della prestigiosa rivista British Medical Journal, ha detto che la cosa più urgente da fare è agire sulle attese della popolazione, ormai convinta che la morte è un optional e che la medicina può sconfiggere le malattie gravi. Non è così. La maggior parte delle malattie gravi sono ancora incurabili.

La medicina ha dimenticato e perso per strada quelle conoscenze ed attitudini, che nel corso della sua storia aveva acquisito nella condivisione con i pazienti della sofferenza del morire.

Questo non sapere non poteva che perpetuare, anche all’interno della medicina, l’emarginazione del morente in camere e reparti dove le visite dei medici sono molto rare e brevissime, in quanto non c’è più niente da dire, perché non c’è più niente da fare. 

 

Il movimento delle cure palliative nasce dall’incontro di persone, attive nella medicina. Esse si rifiutano di credere che nel momento in cui la sofferenza si fa più profonda e coinvolge tutta la persona non ci sia più niente da fare e niente da dire. Si danno da fare affinché proprio la cura ritrovi in queste situazioni il suo vero e più profondo significato.

Gli addetti alle cure palliative non si ritengono migliori degli altri, non hanno formule risolutive. Però hanno fiducia di far parte di un "movimento" che trascina, contagia. Così è stato in Inghilterra, in Italia ed anche nella Svizzera Italiana.

Da questo movimento si è creato un patrimonio di nuove conoscenze che si arricchisce continuamente sulla base dell’esperienza clinica e della ricerca.

 

Le cure palliative non rientrano nella medicina causale, orientata cioè verso il riconoscimento e la rimozione dei fattori che provocano la malattia.

Esse si situano in un’ottica diversa dalla medicina tradizionale che segue un iter diagnostico e terapeutico, il cui obiettivo consiste nell’eliminazione della causa oggettiva della sofferenza.

Il termine palliativo è stato preferito ad altri quali ad esempio medicina sintomatica perché meglio si avvicina al concetto di cure che si vogliono offrire.

Il termine palliare ha la sua matrice etimologica nel sostantivo pallium che letteralmente significa mantello. Il significato di coprire e di vestire si avvicina semanticamente di più al significato che si vuol dare all’aggettivo palliativo, evitando termini più di tipo bellico (es. combattere la malattia, debellare il male, distruggere le cellule) così tipici della medicina moderna.

In ogni relazione terapeutica la comunicazione è la tecnica più importante utilizzata in medicina. In oncologia e nelle cure palliative il problema della comunicazione è reso più complesso dalla rilevanza della dimensione emotiva che coinvolge pazienti, familiari e medici.

Le paure, i tabù associati a tutto quanto concerne il cancro e la morte condizionano pesantemente il modo in cui se ne parla.

I silenzi, le bugie, le collusioni fra curanti e familiari caratterizzano spesso la comunicazione in ambito oncologico.

Essi hanno favorito per lungo tempo la tendenza a raccontare vere e proprie bugie sulla diagnosi e sulla prognosi, inducendo un sistema di cura composto da due verità.

Da un lato quella ufficiale fatta di false rassicurazioni o di silenzi dei medici e dei congiunti, e dall’altra quella intuita dai pazienti che hanno occhi per vedere, orecchie per ascoltare e la sensibilità per aver paura ed immaginare il peggio quando i medici ed i familiari non dicono niente.

Le resistenze dei familiari sono nella pratica clinica l’aspetto che più pone problemi a medici ed agli infermieri che lavorano negli ospedali o sul territorio.

La ferma opposizione dei parenti ad informare adeguatamente il congiunto ammalato è spesso giustificata dalla paura di un peggioramento del suo stato psichico, depressioni, suicidi, che nascondono soprattutto paure comprensibili di dover sostenere le emozioni negative che saranno senz’altro associate alla presa di coscienza della gravità della situazione.

Solo un’attenta comprensione dei bisogni emotivi dei familiari può permettere ai curanti di evitare uno scontro frontale nel caso di un rifiuto ad accettare questa posizione, o l’adeguarsi passivamente alle loro richieste, ponendo così le basi per un clima di menzogna e di diffidenza.

Varie indagini condotte in diversi paesi, con culture differenti, indicano che la maggior parte dei malati preferirebbe morire a casa propria.

 

Le cure palliative nella Svizzera Italiana hanno cercato di contribuire ad esaudire nel maggior numero di situazioni possibili questo desiderio.

Il rimanere nel proprio ambiente, circondato da presenze affettivamente importanti, persone e cose significative migliora la qualità di vita ed influenza positivamente anche i trattamenti contro il dolore, l’ansia e la depressione.

 

Si tratta di un grosso impegno per la famiglia, che va sostenuta da una rete di supporto sul territorio che in questi anni si è notevolmente sviluppata e perfezionata.

 

Occorre ridare alle persone, ai familiari, agli amici, alcuni compiti troppo spesso delegati alla medicina e agli istituti ospedalieri e sociali. Non lo si può fare in ogni caso, non sempre i familiari sono abbastanza forti per portare una croce così pesante. Non sempre ci sono persone vicine disposte a condividere tanto dolore. Ma si può incoraggiare e aiutare almeno coloro che provano ad alleviare le sofferenze e l'angoscia di chi sta morendo, semplicemente standogli più vicino, a casa.

 

Certo è che la cultura delle cure palliative sta trasformando a poco a poco il modo di curare in medicina, e questo nonostante i numerosi ostacoli, frutto di abitudini acquisite, di resistenze degli istituti ospedalieri e sociali, ma anche frutto della immensa paura che ognuno di noi semplicemente ha, di fronte alla morte.

 

Una cultura nuova, che deve trovare le parole giuste per dialogare con la società, con tutti noi. Perché il confronto con la sofferenza e la morte non può essere delegato alla medicina, e forse nemmeno alla medicina delle cure palliative.

 

 

Patrizia Pesenti
Consigliere di Stato