Congresso della Società svizzera di medicina e cure palliative

 

Intervento della Consigliere di Stato Patrizia Pesenti

Lugano, 18 aprile 2002


Gentili Signore, Egregi Signori,

quando mi è stato trasmesso, dalla signora Canova, l'invito a partecipare a queste due giornate congressuali della vostra associazione, ho subito aderito con interesse.

Poi però mi sono resa conto che si tratta di un tema veramente difficile da trattare. È il tema della sofferenza, della morte, del ruolo del medico e della medicina di fronte alla morte.

Ma anche del ruolo della medicina di fronte alle aspettative, ormai quasi illimitate, del paziente e dei suoi familiari.

Zygmunt Baumann nel 1992 aveva scritto: il problema esiste anche perché siamo sempre più convinti che ogni causa di morte può essere combattuta, posticipata o evitata.

Naturalmente non è così. Le malattie più gravi erano e restano incurabili. E il problema dei trattamenti inutili, delle terapie che allungano la vita, ma le tolgono ogni senso, si pone in modo sempre più urgente.

La differenza forse sta tra il concetto di vita e di funzioni vitali. La medicina palliativa ha il grande merito di riconoscere questa differenza. E di controbilanciare in qualche misura lo svilupparsi di tecniche che si concentrano sulle funzioni vitali, non per allungare la vita, ma per posticipare la morte.

Nella nostra società si muore male, forse si può dire che si muore peggio. Per tanti motivi.

Abbiamo la tendenza a rimuovere la morte come momento inevitabile e forse necessario della vita umana: la morte è un argomento di cui non si parla. E soprattutto a cui non si pensa.

Ma si muore male anche a causa della medicina stessa. Non per colpa delle sue insufficienze, bensì paradossalmente a causa della sua efficacia.

Il progresso della tecnologia medica, con intento senz'altro lodevole, è in grado - oggi più che mai - di prolungare la vita, di contrastare (almeno per un po') la morte con molti mezzi terapeutici. Ma forse è proprio questo atteggiamento della medicina, questa guerra dichiarata alla morte, che ci rende perdenti, quando la morte appare inevitabile, quando non vi sono rimedi. Perdenti nel senso che improvvisamente mancano gli strumenti culturali, spirituali anche, manca addirittura il linguaggio per affrontare, dentro di noi e tra di noi, un tema così essenziale, così prepotente come la morte.

La medicina ha così perso per strada quelle conoscenze ed attitudini che nel corso della sua storia aveva acquisito nella condivisione con i pazienti della sofferenza e del morire.

Non a caso le cure palliative si sono proprio sviluppate come reazione ad un processo di emarginazione della morte dalla nostra quotidianità e dal nostro inconscio collettivo. Un'emarginazione che è stata accompagnata da una delega totale della morte e del morire alla medicina, quasi esclusivamente a quella ospedaliera.

Lo sviluppo di servizi come Hospice, la nascita sul nostro territorio di una rete integrata sempre più forte di esperti in medicina palliativa, medici di base e personale curante, danno una risposta, una risposta umanamente più decente alle sofferenze della fine della vita.

La medicina palliativa prende un posto libero da tanto tempo, tra le speranze illimitate nella scienza e tecnica medica e l'accettazione delle sofferenze e della morte. Nella nostra cultura moderna, dove si ha altrettanta paura del morire che della morte, la medicina palliativa offre una risposta medica, ma anche soprattutto etica.

Il pericolo potrebbe essere quello che anche la medicina palliativa finisca per contribuire alla medicalizzazione del morire e della morte. Ma anche qui occorrerà trovare un equilibrio tra le aspettative, che cresceranno da parte dei pazienti e dei loro familiari, e un approccio umanistico, etico di fronte al morire. Per i medici, per coloro che agiscono in prima linea nelle cure palliative si tratta quasi di ricostruire un linguaggio che tutti noi abbiamo perso. Ricostruire quasi una cultura del morire. Mi chiedo se questo non significa aspettarsi un po' troppo dalla medicina palliativa.

E' evidente che non possiamo delegare alla medicina palliativa un tema così essenziale, così intimo, così strettamente legato alla nostra condizione umana. Il tema interessa tutti noi.

E forse la medicina palliativa dovrà imparare anche a difendersi da una delega che potrebbe diventare totale, che potrebbe travolgere scopo e senso della medicina palliativa. E non sarebbe giusto. Sarebbe in fondo ancora uno dei tanti modi per rimuovere il tema del morire e della morte.

Rimuovere questo tema, delegarlo ad altri, non pensarci, in fondo è quello che noi umani cerchiamo di fare da sempre. Nessuno può pretendere da noi che riusciamo a venire a patti con il nostro essere mortali.

Adesso sappiamo che non possiamo delegare il confronto con la sofferenza e la morte alla medicina, ma nemmeno alla medicina delle cure palliative.

Permettetemi di concludere con una citazione di David B. Morris: la decostruzione continua della morte nella medicina moderna ha messo il paziente in una trappola, a scegliere tra due inferni: da una parte un bombardamento di tecnica, chirurgia, trapianti d'organi per allungare le funzioni vitali, e dall'altra (come se tutto questo non fosse già abbastanza terrificante) una richiesta pubblica che si fa sempre più sentire di poter avere il suicidio assistito, come alternativa all'inferno della tecnica medica.

Ecco, credo che se il discorso si limitasse a questa scelta, perderemmo di molto il senso del nostro essere umani.

Confido in voi affinché si possa andare al di là di questi due inferni.

Patrizia Pesenti
Consigliere di Stato