LA SPIRALE DELL'INEGUAGLIANZA

1. Maggio 2002

 

Arbedo, Centro civico, ore 11.30

Rovio, Ala materna, ore 17.30


 

Nella patria dell'illuminismo, della ragione, in Francia, il risultato delle elezioni è ampiamente illogico. Un candidato che, con il suo partito, ha governato con grande successo, abbassato la disoccupazione, accelerato la crescita economica, è stato sconfitto. Certo si potrebbe dire che è successa la stessa cosa in Italia e negli Stati Uniti, dove la sinistra, pur maggioritaria, ma divisa, ha consegnato le chiavi della stanza dei bottoni alla destra. Così negli Stati Uniti chi pensava che Al Gore non fosse abbastanza ecologista e ha votato Rolph Nader, ora deve rassegnarsi a vedere l'Alaska trivellata dai programmi energetici di Bush. Chi in Francia considerava la moderazione di Jospin una colpa, ora dovrà scegliere se essere governato da Le Pen o da Chirac.

Ma resta ancora da chiedersi perché, anche di fronte ad una economia in crescita un elettore su cinque è talmente arrabbiato, da protestare anche se le cose vanno bene.

Perché tanta rabbia? L'insicurezza è grande, e l’impressione di vivere in un mondo ingiusto cresce sempre di più. I tre valori della Rivoluzione francese liberté, égalité et fraternité fanno fatica a resistere.

Non bisogna stupirsi. Soprattutto a partire dagli anni 80, l'uguaglianza è percepita come un valore negativo. Addirittura la destra sosteneva (e sostiene) che l'uguaglianza come obiettivo politico ostacola, impedisce la libertà. Un argomento paradossale perché égalité significa equità, nel senso di avere tutti le stesse chances, non di essere tutti uguali.

Come altri valori difesi dai progressisti, sono stati investiti dalle bordate di una destra sempre più arrogante e aggressiva. Al posto dell'equità, delle pari opportunità per tutti, si è imposta la retorica della competizione. Tutto è diventato competitivo e tutti devono competere. Che si facciano concorrenza le aziende tra di loro è salutare: la competizione abbassa i prezzi. Ma che competano tra loro gli Stati, o i servizi pubblici, oppure le persone, è molto meno evidente. Infatti uno Stato, una nazione non è una azienda. Però la competitività suona talmente bene, sembra talmente ovvia, che nessuno osa dubitare o chiedersi come fanno gli Stati o le regioni a competere fra loro.

L'idea che la forza di un Paese, di uno Stato è determinata dal suo successo sul mercato mondiale è accattivante, ma non necessariamente vera. La competitività è diventata una ossessione politica, prima ancora che economica. Ma non esiste nessuna prova che il grado di sviluppo economico di una nazione sia proporzionale o dipenda dalla sua capacità di competere sul mercato globale.

Negli anni 80 e 90 anche in Svizzera una certa politica ci ha fatto credere che il livello dei nostri salari non era competitivo. E di conseguenza ha tentato di smantellare la sicurezza sociale.

I sostenitori della competizione sfrenata devono ancora fornire le prove che, per esempio, il costo della sicurezza sociale impedisce o frena la crescita economica. In realtà il mondo pullula di esempi contrari. Basta pensare alle cosiddette "tigri asiatiche" il cui tasso di sviluppo economico è stagnante nonostante condizioni di lavoro e salari terrificanti.

I paesi, le nazioni non sono così globalizzati come si crede. La maggior parte di quello che producono viene consumato internamente.

Lo Stato non è come una azienda: l'azienda deve vendere i suoi prodotti all'esterno (una fabbrica che produce scarpe non può farle mettere tutte ai suoi dipendenti), mentre lo Stato fornisce beni e organizza servizi per i suoi cittadini (come la sicurezza, la pace, la giustizia, la formazione scolastica, la promozione della salute....) Non li deve vendere ad altri. La sicurezza, la salute, la giustizia.... non si esportano.

Proprio ora che i mercati, le frontiere si spalancano davanti a noi - con gli accordi bilaterali - forse è giunto il momento buono di liberarci di questa ridondante retorica sulla competizione.

Chi ha predicato negli anni le meraviglie della competizione difficilmente riuscirà a dimostrare che tutto quanto è stato sacrificato sull'altare della competitività abbia migliorato il livello di benessere. Ma la domanda da porsi è se tutta questa competizione ha migliorato il livello di vita degli Svizzeri, dei Ticinesi. E per livello di vita intendo: condizioni di lavoro, sicurezza dell’impiego, salari adeguati.

La competizione doveva infatti accrescere il benessere generale, non solo di una élite.

Per questo le lavoratrici e i lavoratori hanno accettato sacrifici: licenziamenti che hanno colpito duramente le loro famiglie, che hanno reso tutti più fragili, non solo quelli che venivano licenziati. Anche quelli che hanno mantenuto il posto di lavoro, o l'hanno ritrovato, hanno più paura di perderlo. Devono costantemente aggiornarsi, riqualificarsi, per non perdere il treno, per non essere esclusi.

Una inchiesta recente in Svizzera dimostra che sono moltissimi i lavoratori, di tutte le categorie, ad aver paura di perdere il lavoro, e che soffrono molto di più. Consumano per esempio il doppio di sonniferi, soffrono molto di più di mal di schiena, vanno molto meno dal medico, per non mancare dal lavoro.

Uomini e donne, giovani e meno giovani, accettano condizioni di lavoro più precarie, pur di lavorare! Non solo il lavoro è diventato più flessibile, il che può essere anche un bene, ma più incerto. Molti dipendenti hanno contratti a tempo determinato, su chiamata, a salari molto bassi tanto da non poter coprire il minimo vitale. E questo è certamente un dramma per molte famiglie.

L'aumento di queste forme di lavoro atipiche, come pure la loro diffusione è allarmante. Qualcosa sta cambiando davvero e non siamo sicuri che sia per il meglio. La libertà e l'autonomia, tanto decantata, se ne va, quando il lavoratore si vede costretto ad operare quale indipendente per la stessa azienda che magari precedentemente lo aveva licenziato e ora lo fa lavorare come esterno. Abbiamo perso per strada l'égalité, l'equità. Ma siamo sicuri di essere più liberi: che libertà è quella di lavorare su chiamata o in affitto?

Per adesso si chiamano forme di lavoro atipiche, ma stanno diventando sempre più tipiche, e non solo per i giovani.

La competitività ha forse migliorato il nostro benessere? Non credo! Basta guardare i dati dell’Ufficio cantonale del sostegno sociale. Nel corso del 2001 il numero di persone occupate è rimasto costante, ma sono aumentati i lavoro precari; la disoccupazione è stata parzialmente assorbita proprio perché sono aumentati i lavori precari e mal pagati. La buona congiuntura ha di fatto aumentato il numero di chi lavora con un reddito insufficiente che deve essere poi integrato da prestazioni di sostegno sociale. Lavoratrici e lavoratori a tempo parziale, lavoro discontinuo, salari troppo bassi rispetto al fabbisogno vitale.

Il fenomeno dei "working poor" - anche se si scrive in inglese - è una realtà pure nel nostro Cantone.

Il numero di questi casi è salito nel 2001 del 7% (798 casi).

Questa non è retorica, sono persone, con un nome, un cognome, una famiglia, dei bambini, e che si vergognano di essere poveri.

Quelli che sbandierano la competizione vogliono farci credere che corriamo tutti verso un traguardo, verso una ricompensa: in realtà una minoranza è già arrivata e ha preso tutto. Penso ai salari (ma forse sarebbe meglio chiamarli "premi") di milioni e decine di milioni all'anno. La maggioranza invece è ancora lì che cerca la linea di partenza. Per loro, il salario non è cresciuto o è addirittura diminuito in termini reali negli ultimi anni.

Quello che è successo con la Swissair è emblematico: ricerca sfrenata della competitività da parte di manager impreparati e senza scrupoli, manager che sono stati stra-ricompensati mentre non hanno pagato il disastro che hanno causato, tutto ricaduto sui semplici dipendenti e sull'intera popolazione.

Negli anni 70 un manager guadagnava circa 30 volte di più di un operaio medio. Oggi un manager viene pagato 150 volte il salario di un operaio. Fino ad allora certi compensi sarebbero stati considerati indecenti. E oltretutto oltraggiosi, se vengono accompagnati da licenziamenti e ridimensionamenti.

Che cosa è successo? Perché sembra inevitabile che sia così? Si parla di ceto medio. Ma quale ceto medio? Una parte della popolazione riesce a fare sempre meno con quello che guadagna mentre una piccola élite riceve compensi da favola.

Si parla di classe media, ma i valori della classe media sono stati spazzati via. Quell'etica dell'uguaglianza, o della decenza, che impediva sproporzioni evidenti, è stata spazzata via.

Che fare? Non ho dubbi in proposito: per una maggiore equità possiamo solo batterci assieme, superando divisioni e contrapposizioni che fanno soltanto il gioco degli avversari. Come è successo al primo turno delle presidenziali francesi.

 

Patrizia Pesenti

Consigliere di Stato