CONVEGNO
CREDIT AU LAC
Lugano, 17 maggio 2002
L’impatto
dei cambiamenti internazionali sul Ticino
Gentili
Signore,
Egregi Signori,
è
per me un grande onore portare il saluto dell'autorità cantonale a questo
convegno. A nome del Consiglio di Stato intendo ringraziare sentitamente gli
organizzatori.
Nel
mio intervento vorrei partire
da
un'analisi delle tendenze in atto sul piano internazionale
per
poi valutare l'impatto sul Ticino
e
il tipo di risposte che il Cantone è chiamato a dare sul piano delle
politiche pubbliche.
E'
innegabile che durante gli anni '80 e '90 vi è stata una forte accelerazione di
alcune dinamiche di cambiamento riassumibili in tendenze demografiche e sociali, ambientali e territoriali,
economiche, tecnologiche e scientifiche.
Su
queste tendenze si sono innestati, in tempi più rapidi, nuovi e profondi cambiamenti.
Penso alle tecnologie della comunicazione e dell'informazione, alle nuove
scoperte scientifiche, ma anche alla mappatura del genoma umano.
Questi cambiamenti hanno avuto per effetto di aumentare la complessità della società moderna e di rendere di colpo ancora più
incerta la politica da seguire.
Diventa quindi più difficile dare una risposta valida ai bisogni e alle aspettative che i cittadini hanno verso lo Stato e la politica.
Le
caratteristiche di questi cambiamenti si possono così riassumere:
essi
non riguardano più un territorio preciso, ma travalicano i confini essendo transnazionali;
questi
stessi cambiamenti rimettono quindi in questione il ruolo dello
Stato-nazione. Agendo in modo transnazionale, essi limitano
le incidenze delle politiche pubbliche nazionali, legate cioè a un
territorio preciso, delimitato;
infine,
i confini e i rapporti tra settore pubblico e settore privato vengono
modificati da questi stessi cambiamenti.
Sono
cambiamenti dal carattere molto pervasivo. Nel senso che si stanno diffondendo
in tutti i settori della società, coinvolgendo i cittadini, le istituzioni e le
imprese.
Tra
l'altro con effetti che in taluni ambiti vitali (ad esempio l'ingegneria
genetica) sono ancora molto incerti o ignoti.
Da
qui la necessità, per le politiche pubbliche, di dotarsi di una strategia che
sappia anticipare. Che permetta un equilibrio nelle tre dimensioni determinanti dello sviluppo: quella economica, quella
sociale e quella ambientale.
E'
il principio dello sviluppo durevole (o
sostenibile).
Una
prospettiva indispensabile se vogliamo coniugare efficienza economica e equità
sociale, e preservare l'ambiente di vita naturale.
Il
modello è stato fatto proprio dal Consiglio
federale nel programma
di legislatura 1999-2003.
I
limiti imposti all'azione dello Stato nazionale riguardano ovviamente anche un
paese come la Svizzera che, pur non facendo parte dell'Unione europea, non può
non adeguarsi a una realtà in piena mutazione. La via scelta dalla
Confederazione e dal popolo, in ambito europeo, è quella degli Accordi
bilaterali che entreranno in vigore il 1. giugno e comporteranno importanti
fattori di cambiamento e soprattutto di rischio.
Non sappiamo ancora veramente quali effetti avrà la libera circolazione delle
persone sul nostro mercato del lavoro.
Pensando a questi cambiamenti, a mio modo di vedere due questioni mi paiono prioritarie:
1.
individuare di seguito il ruolo
dello Stato nell'ambito di uno sviluppo durevole.
2.
ridefinire il ruolo di
"servizio pubblico" all'interno dei mutamenti che stanno cambiando
la società e le istituzioni;
Il
tema della liberalizzazione e della privatizzazione è
all'ordine del giorno. Se ne parla molto, ma male, nel senso che spesso si
assiste a una vera e propria guerra ideologica. Personalmente credo che le
esperienze attuate in vari paesi non
permettono di trarre conclusioni univoche.
In
generale si può dire:
la
concorrenza apporta generalmente
vantaggi per i consumatori in termini di produttività e, soprattutto, di
qualità dei servizi, di innovazione e di diversificazione delle
prestazioni;
gli
effetti delle privatizzazioni sono
invece meno chiari. Se non accompagnate da una vera concorrenza, esse
possono sfociare in trasferimenti più favorevoli agli azionisti che ai
consumatori. Un monopolio privato non
è certo meglio di un monopolio pubblico.
Ogni
riforma relativa a liberalizzazioni e privatizzazioni dovrebbe essere preceduta
e seguita da bilanci seri dei costi e dei vantaggi dal punto di vista dei
cittadini e consumatori. Purtroppo questo non viene quasi mai fatto seriamente.
Lo
stesso vale per i servizi pubblici. I
servizi pubblici, giova sottolinearlo, possono essere determinanti per
l'efficacia produttiva dell'intera economia.
Penso
in particolare quelli caratterizzati da una " messa in rete":
telecomunicazioni, elettricità ed energia, trasporti e ferrovie, servizi
postali. Fanno parte del territorio e in quanto tali contribuiscono alla
coesione sociale.
Questi
servizi, in altri termini, materializzano delle solidarietà sociali. La
connessione in rete è spesso necessaria al mantenimento di un legame sociale.
L'assenza di connessione, al contrario, appare come un segno di esclusione.
In
questo senso il servizio universale
non è solo un'idea ereditata dal 19. secolo all'epoca della creazione delle
Ferrovie federali e della Posta svizzera.
Ritorna
ad essere un'idea moderna pensando ad esempio alle tecnologie di comunicazione e di informazione. L'accesso di tutti i
cittadini a queste nuove tecnologie deve essere garantito. In una società
democratica è inammissibile che si crei un divario tra chi ha e chi non ha
accesso alla rete delle reti. Il digital
divide può diventare un problema molto serio e difficile da gestire.
Anche
per le stesse imprese, oggi avere accesso
alle reti sta diventando importante quanto nell'era industriale era
importante godere di un vantaggio strategico sul mercato. Come ha osservato
l'economista B.A. Lundwall, nelle "economie basate sulla
conoscenza(learning economies)
il
problema della crescita è sempre più un problema di accesso alle risorse, piû che di risorse ".
la
questione cruciale non è tanto quella di togliere allo Stato ambiti e funzioni,
ma di costruire un " mercato" che sia in grado di fare i conti con la
nuova realtà e nel contempo di ridisegnare un nuovo spazio pubblico.
Tutte
le discussioni sul cosiddetto big
governement o meno stato sembrano
già antiche.
Il
sociologo Alain Touraine ha riassunto bene la questione: Tanto lo Stato produttore deve farsi da parte, tanto lo Stato
integratore deve rafforzarsi. Più l'economia è aperta e competitiva, più
grandi sono i rischi di disintegrazione sociale e, di conseguenza, più lo Stato
deve farsi carico di favorire sia il rafforzamento del "corpo di battaglia
tecnologico" che delle solidarietà sociali.
In definitiva, Alain Touraine ci dice che occorre ridefinire gli equilibri
tra
competitività e solidarietà,
tra efficienza economica e equità sociale,
tra rendimento e coesione sociale.
Questa
linea di indirizzo può trovare applicazione anche in Ticino, regione-cerniera
tra Nord e Sud.
Il
Ticino non può ovviamente sfuggire ai cambiamenti in atto internazionalmente.
Anzi, ne è già al centro (e non solo in tempi recenti), se solo pensiamo alla
questione delle vie di transito.
D'altra
parte, il peso economico e politico del cantone Ticino è quello che è. Questo
peso non gli permette di certo di influenzare in qualche misura il corso degli
eventi.
Il
Ticino può, però, inserirsi in
questi cambiamenti, adottando non soltanto delle politiche reattive, ma in modo più attivo, partendo dalle sue potenzialità,
dalle carte vincenti che sono già presenti sul territorio.
Sotto
questo profilo negli anni '90 sono stati realizzati in Ticino importanti
progetti. In poco tempo sono state create un'Università e una Scuola
universitaria professionale accanto alle quali, ma in modo indipendente, si è
sviluppato un polo tecnologico di
rilievo internazionale con il Centro svizzero di calcolo scientifico, l'Istituto
di ricerca in biomedicina e l'Istituto oncologico della Svizzera italiana.
Formazione
e ricerca
di alto livello da un lato e dall'altro la valorizzazione
delle risorse umane devono costituire l'asse prioritario su cui costruire il
futuro del cantone.
Questa
strategia deve però fare i conti con la posizione geografica del Ticino ancora oggi determinante sia in ambito
economico (terziario, industriale), che
territoriale (trasporti, vie di comunicazione) e socioculturale
(Cantone svizzero ma di lingua e cultura italiana).
Ma
è anche questa posizione che fa del Ticino una regione dipendente: le sue possibilità di influenzare i numerosi
cambiamenti che derivano da questa posizione sono piuttosto limitati. Anche
perché i centri decisionali sono principalmente di competenza nazionale
(Confederazione) e internazionale (Unione europea).
Questo
significa che il
Cantone non può più far dipendere il proprio sviluppo da questa posizione tra
Nord e Sud.
Per
dirla in altri termini, il Ticino può e deve andare oltre i concetti di spazio d'intermediazione tra Nord e Sud o di economia di connessione.
Per
dirla in altre parole il Cantone non può più trarre a proprio vantaggio questa
posizione come in passato in termini di posizione
di rendita. Deve sforzarsi invece di sostenere quei segmenti produttivi e di
servizio che possono trasformare quella
posizione in valore aggiunto.
Ciò
concerne in particolare il settore dei servizi (piazza finanziaria, logistica,
trasporti), ma non solo.
Purtroppo questa posizione tra Nord e Sud comporta sempre di più una serie di fattori negativi: penso soprattutto alle vie di comunicazione intasate, con quello che significa in termini di inquinamento e salute delle persone.
La
ricerca di un equilibrio in questo settore sarà molto, molto difficile.
Si
può ben dire che la posizione tra Nord e Sud implica contemporaneamente due
tipi di politiche pubbliche, e che queste politiche possono anche essere
conflittuali l'una con l'altra: da un lato vi è la necessità di promuovere e
dall'altro di conservare e proteggere.
Anche
in questo ambito si pone dunque la necessità di un equilibrio, ossia di uno
sviluppo sostenibile e durevole.
Consentitemi,
in conclusione, di soffermarmi sulle politiche sociali e del lavoro, investite
dai cambiamenti in atto.
La
flessibilizzazione del mercato del lavoro
ha messo in crisi i fondamenti stessi dello Stato sociale. Nell'attuale ciclo
economico non è tanto la disoccupazione, espressa nelle statistiche ufficiali,
a preoccupare quanto piuttosto la precarietà, l'instabilità e l'insicurezza dell'impiego.
Alla
riduzione e all'attuale stabilizzazione del tasso di disoccupazione non ha
corrisposto (e non corrisponde tuttora) una riduzione del tasso di precarietà
del lavoro. Quello che vediamo dai dati a nostra disposizione è che la ripresa
economica ha riassorbito la disoccupazione a costo di una maggior precarietà e
instabilità dell'impiego.
In
Svizzera ed anche in Ticino negli anni '90 si è assistito ad una marcata
estensione delle forme atipiche di lavoro (lavoro a tempo parziale, lavoro a
tempo determinato, lavoro interinale e lavoro su chiamata) nonché ad una
diffusione di forme di lavoro autonomo.
Il
problema principale è costituito dal fatto che queste nuove forme lavorative si
collocano al di fuori delle reti classiche di protezione sociale.
Si
tratta quindi di intervenire innanzitutto a sostegno di coloro che sono esclusi
dalle prestazioni sociali a causa
del loro statuto lavorativo, elaborando forme di mutualizzazione dei problemi
condivisi, quali la ricerca di lavoro, l'aggiornamento professionale, la
prevenzione delle patologie legate all'insicurezza, l'insufficiente copertura
assicurativa e la cura dei figli.
La
sfida che si pone consiste, dunque, nel gestire la transizione da un sistema sociale centrato sulla nozione di impiego
stabile e di lavoro salariato a un sistema economico sempre più differenziato e
attraversato da forme di lavoro ibride.
La
strategia di modernizzazione delle
garanzie sociali, fatta propria dal Consiglio di Stato nelle Linee Direttive
2000-2003, mira ad evitare che chi è già svantaggiato finisca con il subire
l'esclusione sociale.
Anche
perché il grado di benessere di una società non lo si può misurare unicamente
sulla base di indicatori economici, in primo luogo il PIL, che forniscono quasi sempre solo dati quantitativi.
Una
riforma fondamentale sarebbe quella di introdurre accanto all'indice del PIL,
che in fondo dice sempre meno, un indice
composito di traguardi desiderabili e possibili, nei settori essenziali per il
benessere dei cittadini: il lavoro, la salute, la sicurezza, l'ambiente.
In
società ricche come le nostre il benessere dei cittadini non è legato solo
alla congiuntura economica.
È
legato soprattutto alla fiducia nella
capacità di anticipare e affrontare i grandi problemi che vediamo arrivare.
Dare un senso alla crescita economica, significa fondare un nuovo concreto consenso tra i cittadini.
Patrizia
Pesenti
Consigliere di Stato