Cerimonia giuramento Giudici e Giudici supplenti

del Tribunale d'Appello

Bellinzona, Castelgrande, 29.05.02


Onorevoli signore e signori Giudici,

Onorevoli signore e signori Giudici supplenti,

Signor presidente del Granconsiglio,

Cari colleghi,

 

Sono molto onorata di prendere la parola oggi, innanzi tutto per congratularmi con voi, a nome dell'intero Governo, per l'importante carica che assumete.

Il protocollo e la consuetudine richiedono che il Presidente del Governo faccia un breve discorso di circostanza.

Oggi, prima di assumere la carica per il prossimo mandato, avete rilasciato la dichiarazione di fedeltà alla Costituzione e alle leggi.

La riflessione che vorrei proporvi è proprio attorno al tema della legge, della legalità, intesa come governo della legge.

In questa epoca agitata che stiamo attraversando abbiamo a volte l'impressione che l'etica della legalità venga offuscata o, peggio, sostituita da quella che definirei una diffidenza verso la legalità.

Certo non è generalizzata, ma qua e là se ne avverte la traccia.

Avvisaglie di una mentalità che identifica l'eroe, non già nel giudice o politico integerrimo, ma nel furbo che sfugge alla legge o nel politico che si pone al di sopra della legalità.

Forse questo è sempre esistito. Quello che oggi è cambiato è il sentimento di vergogna. Nel senso che è sparito. Nessuno si vergogna più di nulla. Quasi si vergognano gli altri, quelli che parlano di valori, di morale.

Chi viola la legge non è tenuto a giustificarsi. Anzi in certi casi la violazione della legge diventa opinabile, dibattuta, come se fosse una opinione appunto, e come ogni opinione avesse diritto di cittadinanza in un mondo pluralista. Siamo tutti coscienti che non esiste una sola verità, che le sfaccettature della realtà sono tante.

Ma la giustizia non ha a che vedere con la verità assoluta. Un sistema giuridico è un insieme di norme, che vengono ritenute eque e giuste dall'insieme delle persone, un accordo che si presume sottoscritto da tutti. Quindi non si tratta di ridiscutere ogni volta la bontà delle norme nel momento in cui vengono applicate, ma di rimetterle in questione semmai nell'ambito nel processo legislativo. Una volta accettate non possono che essere applicate con regolarità e imparzialità.

Parlavo di un'etica della diffidenza verso la legalità. Il suo corollario sembrerebbe l'etica del perdono. Non inteso in senso religioso, perché qui entreremmo in ben altre categorie. Ma nel senso del condono, della transigenza, della richiesta di non applicare la legge quando appare severa o dura nelle sue conseguenze.

Mi chiedo se da sempre siamo stati come società così inclini al perdono, tentati di transigere ancor prima di aver valutato fino in fondo un gesto o un comportamento.

Parlo di intransigenza, anche questa una parola in disuso, perché non vi può essere applicazione della legge, o ancora di più, difesa della giustizia, senza intransigenza. Il suo opposto è la tendenza a perdonare facilmente, a dimenticare troppo presto, ad amnistiare, ad assolvere.

Forse la tendenza al condono, al perdono ha a che vedere con la nostra cultura. Certo la mancanza di intransigenza non contribuisce a creare cittadini liberi. Perché la certezza di essere tutti sottoposti alle stesse norme e alle stesse pene è fondamentale nello stato di diritto e direi è fondamentale nella concezione democratica dello stato, dove il cittadino deve essere sicuro delle norme che regolano il convivere civile.

Cesare Beccaria (nel suo famoso scritto Dei delitti e delle pene dove parla del tema dell'importanza della certezza della punizione) scriveva: La clemenza è la virtù del legislatore e non dell'esecutor delle leggi; che deve risplendere nel codice, no già nei giudizi particolari; che il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti, o che la pena non n'è la necessaria conseguenza, è un fomentare la lusinga dell'impunità, è un far credere che potendosi perdonare, le condanne non perdonate sian piuttosto violenze della forza, che emanazioni della giustizia".

Si parla tanto del senso di insicurezza dei cittadini. La conseguenza peggiore del diffondersi di un'etica della furbizia, che permette ad alcuni di passare impuniti, è proprio una erosione della sicurezza.

E l'insicurezza diventa il contrario della libertà. Nessuno può essere veramente libero se si sente insicuro, incerto. Se non sa quali sono le regole del gioco. O peggio se conosce le regole del gioco ma sa che alcuni, perché sono più forti o più furbi o più potenti, possono non rispettarle.

Il rispetto delle regole del gioco è strettamente legato alla libertà. Questo vale nel caso in cui le norme che costituiscono il sistema giuridico sono giuste. In questo caso costituiscono una base per delle aspettative legittime. In altre parole costituiscono il fondamento su cui poggia la fiducia reciproca delle persone. Il fondamento in base a cui possono far valere i loro diritti e le loro aspettative, qualora venissero calpestate.

Se non vi è chiarezza, se non sappiamo cosa possiamo aspettarci, nel senso di che cosa è legittimo aspettarsi, altrettanto incerti saranno i confini della nostra libertà.

Tra l'altro questo vale per ogni regola, anche le regole dei giochi o di una associazione privata. Le regole diventano la base di cosa ci si può e deve aspettare, delle aspettative legittime e in questo senso quindi definiscono la libertà.

La legge rende liberi i cittadini perché li libera dall'arbitrio di altri individui. Qui sta il senso e lo scopo dello stato di diritto (o governo delle leggi).

Un cittadino è davvero libero quando dipende solo dalle leggi, non da altre persone. Naturalmente solo se le leggi vengono applicate a tutti e sono decise democraticamente, in altre parole le leggi stesse non devono essere dettate dall'arbitrio.

Aristotele diceva la legge non ha passione. Intendendo che la legge è neutrale, non ha interessi, non persegue un fine, non ha preferenze, appunto non ha passione, tratta tutti allo stesso modo.

La libertà è proprio questo: non dipendere dall'arbitrio di altri. L'indipendenza come libertà dalla volontà, dall'arbitrio di altre persone. La libertà in questo senso viene dalla legge, dalla certezza che le regole del gioco valgono per tutti nello stesso modo.

Che casi simili sono trattati allo stesso modo in circostanze simili.

In altre parole che vi è giustizia.

Oggi quando si parla di libertà spesso la si contrappone invece alle leggi dello stato. Le leggi come un freno alla libertà degli individui. Quasi che le leggi rendessero schiave le persone.

Al contrario, non le leggi, che non hanno passione come diceva Aristotele, ma la volontà arbitraria di altri individui toglie la libertà alle persone. La dipendenza dalla volontà arbitraria di una persona o di un gruppo di persone genera paura, rende servili. Quando alcuni possono violare impunemente le regole del gioco, gli altri possono solo abbassare la testa, tacere o adulare coloro che sono tanto potenti da violare le regole.

È questa dipendenza dalle persone, ad essere il maggior nemico della libertà. Eppure ci siamo quasi fatti convincere dall'idea che ci sono troppe regole, troppe leggi. Quasi che le regole e le leggi fossero esse stesse un impedimento alla libertà. Certo possono esserci leggi in uno stato, che pur essendo definite democraticamente, impediscono una certa libertà d'azione alle persone. Ci possono essere leggi vessatorie, noiose e inutili. E nulla impedisce che proprio queste leggi possano essere modificate, abrogate, ma nel normale processo legislativo. Non applicarle, condonare, perdonare è un'altra cosa.

Alcuni a volte ci chiedono di non rispettare le regole del gioco, di perdonare e si stupiscono, quasi, di fronte all'intransigenza, al principio di parità di trattamento, che poi altro non è che il principio di legalità. Non vi è motivo di ascoltarli. Ci rendono tutti un po' meno liberi.

 

avv. Patrizia Pesenti

Presidente del Consiglio di Stato